SURSTRÖMMING: aringa fermentata
Durante un viaggio lungo la costa del Mar Baltico,
all’altezza di Höga Kusten (la Costa Alta) ci siamo imbattuti in un’antica
specialità svedese: il surströmming.
Si tratta di piccole aringhe lasciate a fermentare in barile
per un paio di mesi e poi chiuse in scatola, dove il processo di fermentazione
prosegue fino a gonfiare e deformare la lattina. A questo punto il pesce è
pronto per la degustazione.
Una volta rientrati in Italia abbiamo invitato gli amici per
un assaggio della prelibatezza. Ci siamo sistemati in giardino, seguendo i
consigli del venditore che ci aveva raccomandato di aprire la lattina
all’aperto. Suggerimento preziosissimo, perché all’apertura del coperchio si è sprigionata
una puzza difficile da descrivere: un misto di rancido, di acido fenico e di uova marce. Quasi tutti si sono allontanati
col voltastomaco, compreso i nostri cani, e solo pochi di noi hanno provato ad
assaggiare il contenuto, che in verità si è rivelato meno infame dell’odore.
Secondo me il surströmming vince la medaglia d’oro tra i
cibi più disgustosi del pianeta
La medaglia d’argento l’assegnerei all’hakarl, una
specialità islandese. Adesso è una “chicca” riservata ai turisti coraggiosi, ma
un tempo rappresentava una risorsa alimentare per gli allora poverissimi
isolani. Quando nelle reti rimaneva impigliato uno squalo della Groenlandia,
(immangiabile a causa delle sue carni impregnate di urea) anziché ributtarlo in
mare i pescatori lo mettevano in una buca ricoperta di ghiaia e lì lo
lasciavano per alcuni mesi a fermentare. Dopodiché lo riesumavano, lo facevano
a pezzetti e se ne cibavano.
Noi l’abbiamo assaggiato per la prima volta negli anni ’80
in un ristorante tipico non lontano da Reykjavik. Ci è stato servito come
antipasto, in piccoli pezzi, diciamo come i cubetti di pancetta. L’odore era neutro, ma appena messi in
bocca…. un orribile sapore di ammoniaca ci ha inondato le papille. Il desiderio di sputare è stato immediato, ma
per fortuna il piattino era stato servito assieme a bicchieri di brennevin (la
grappa islandese), che hanno attutito l’impatto, permettendoci di ingoiare il
bocconcino come una pillola.
Da un paio di giorni, viaggiando nella foresta equatoriale
del sud Cameroun, sentivamo un odore disgustoso nell’aria: esattamente un odore
di latrina, e abbiamo scoperto che proveniva da alcune piante che
fiancheggiavano la pista. Tra di noi, scherzando, le chiamavano “le piante
della cacca”. Una sera, non trovando spazio nella foresta per il nostro campo,
abbiamo chiesto ospitalità ad un piccolo villaggio, i cui abitanti si sono dimostrati molto ospitali, tanto da
offrirci del cibo. Hanno preso un
impasto di manioca, l’hanno messo in larghe foglie e l’hanno stufato, proprio
come facciamo noi con gli involtini di maiale con le verze. Al momento di servircele, però, il nostro
naso ha capito che le foglie utilizzate erano quelle del famigerato albero
della cacca. E’ stata veramente dura, soprattutto per Giovanni, perché, mentre
noi donne dopo un primo assaggio abbiamo accampato problemi di inappetenza, lui
ha dovuto mangiarselo tutto e far mostra di gradire, per non offendere i
nativi.
Non abbiamo mai scoperto di quale pianta si trattasse, ma certamente l’involtino merita la medaglia di bronzo del disgusto.
Nei mercati all’aperto dell’Africa Occidentale non è raro vedere, accanto al pesce essiccato e alle montagne di piccole banane verdi, degli strani tranci di carne bianca. Eravamo in Biafra quando abbiamo chiesto per la prima volta di cosa si trattasse e ci è stato risposto che era carne di pitone. Superato un primo momento di repulsione, abbiamo deciso di assaggiarla e ce la siamo fatta cucinare alla griglia. E’ davvero buona, delicata, piuttosto dolce, direi a metà tra la carne di pollo e quella di coniglio. Per la verità non c’è molto da mangiare da un serpente, neppure se è un pitone di grossa taglia. Dunque lasciamoli stare, che non risolvono certo il problema della fame.
Al giorno d’oggi non vorrei certo mangiare carne di balena,
ma devo testimoniare che mezzo secolo fa (mamma mia come sono vecchia), quando abbiamo
cominciato a frequentare il grande Nord, la carne di balena si vendeva
tranquillamente sulle bancarelle dei mercati del pesce della Norvegia. Per non
parlare dell’Islanda, dove era presente in tutti i negozi di alimentari
(accanto alle teste di pecora affumicate!), sia fresca che surgelata.
Perciò l’ho mangiata parecchie volte e sempre sotto
forma di grossa bistecca. La carne è
magrissima, eppure molto tenera, dolce al palato e di colore rosso scuro, quasi
come il fegato, di cui ha anche un vago sapore.
Le balene hanno rappresentato una fonte di reddito primario
per le genti dell’estremo nord, sia per l’olio e le stecche, che venivano vendute
in tutto il mondo, sia per la grande quantità di carne che se ne ricavava,
capace di sfamare interi villaggi.
Oggi che i popoli nordici hanno raggiunto uno straordinario grado di benessere, non c’è più bisogno di uccidere balene e recentemente questa caccia è stata bandita anche in Norvegia e in Islanda.
I PUFFIN
Tempo fa abbiamo visitato l’isola di Heimaey (a sud
dell’Islanda), famosa per l’attività vulcanica, ma soprattutto per la presenza
della maggior colonia di puffin, che noi chiamiamo “pulcinella di mare”, al
mondo. Si parla addirittura di un milione di esemplari che vengono a nidificare
in questa zona.
Gli isolani ne sono orgogliosi e curano amorevolmente la
colonia, tanto che i bambini s’incaricano di raccogliere e riportare in mare i pulcini
che per errore finiscono tra le case del villaggio.
Perciò mi è sembrato un po’ contradditorio di trovare i
puffin nel menu dei ristoranti locali.
Ma tant’è, questo è un piatto tradizionale e dunque l’abbiamo
assaggiato. Niente di che: è un piccioncino
dalle carni scure e tenaci. Esperienza che non val la pena di ripetere.
Chissà perché, negli anni ’70 nei ristoranti “chic” europei
era di moda proporre il “brodo di tartaruga”, sicuramente un piatto di
derivazione orientale. A noi è capitato
di assaggiarlo in un ristorante di Hannover.
Già all’apparenza il piatto non si presentava entusiasmante,
con quel colore marrone opaco nel quale galleggiavano alcuni pezzetti di carne,
ma il sapore era anche peggio, perché sembrava di sorbire la colla da
falegname. Bocciato. Adesso il brodo di
tartaruga è vietato, ma non credo che qualcuno ne senta la mancanza.